La prima volte che ho sentito parlare di podcast era il 2007 ed ero a Sharm el Sheikh. Avevo realizzato, per la Radio Svizzera, una serie di racconti per la rubrica Tra cielo e Mare, e volevo riascoltarli. La pagina dei podcast era introvabile senza il link diretto. Quei pochi network che ne avevano una la nascondevano, come se non ci credessero troppo, o temessero una frode. In ogni caso, quell’emittente ce l’aveva prima di altre. Solo nel 2004 non si sapeva ancora come chiamarla, quella cosa che ti permette di scaricare le puntate in differita.
Ci pensò Ben Hammersley, a inventarla. Scrivendo su The Guardian, nel 2004, coniò la parola podcasting, un neologismo che nasce iPod e broadcasting. Lo stesso giornale, un anno dopo, ospitava quello che sarebbe rimasto per molto tempo il podcast più scaricato al mondo, The Ricky Gervais Show. A differenza dello streaming, potevi scaricarlo ed ascoltarlo su qualsiasi altro dispositivo. In pochi anni il podcast, sfruttato all’inizio solo da alcuni audio-blogger, diveniva uno degli elementi familiari nelle pagine internet di giornali e di emittenti. In Italia, come al solito, c’è voluto un po’ di più. Fortunatamente, anche la tecnologia per produrre file audio di qualità stava cambiando. Se nel 2007 dovevo affittare uno studio di registrazione a Sharm el Sheikh (esistono anche studi di registrazione a Sharm el Sheikh) ed aspettare un’ora per avere un file inviato sul server, oggi lo stesso file lo invio in tre secondi, e la qualità dei microfoni a prezzi abbordabili è migliorata assai. Se non si pretende la broadcasting quality ma non si vuol fare brutta figura, basta un iPhone. Sì, io uso windows per scrivere, ma le schede audio migliori, nei prodotti a larga diffusione, ce l’ha storicamente la Mela. Col tempo ho imparato, lavorando accanto ai professionisti, a fare qualche montaggio audio, a scovare ed evitare le magagne. Ed anche che una cabina armadio ha le stesse caratteristiche di uno studio di registrazione. Tuttavia, il mio amore per il podcast e l’audio in genere non è innamoramento professionale, c’è molto senso pratico e, qui lo dico, una buona dose di insofferenza per uno schermo cui sto incollato fin troppo a lungo durante la giornata, di insofferenza per il bombardamento visivo cui siamo soggetti. Tutto ciò per colpa di un senso sopravvalutato. Soprattutto dal marketing.
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