Ho iniziato ad immergermi nell’ottobre del 1981, esattamente 41 anni fa: da quel momento la subacquea ha condizionato tutta la mia vita. Diciamo che ci eravamo lasciati alle spalle da poco gli albori della disciplina e si sperimentava ancora molto.
Il tempo dei computer subacquei era ancora in là da venire (era l’epoca degli “armadi” a disposizione di sole pochissime grandi aziende e solo per i propri gestionali, altro che attività ricreative) e, a meno di non voler rischiare addirittura la vita, potendo fare affidamento solo sulle “tabelle” di decompressione, si organizzavano unicamente immersioni “quadre”: discesa fino alla profondità X, permanenza per tempo Y (poco, pochissimo!), risalita (onestamente questo esercizio non mi è mai riuscito alla perfezione).
Non esisteva ancora il GAV e ci si arrangiava con una busta di plastica del fruttivendolo sotto casa: finita la spesa la si infilava nell’imbrago della bombola e, in profondità, la si gonfiava a mo’ di palloncino per contrastare l’assetto negativo.
Per essere più precisi l’imbrago era del “bibo”: dicasi due bombole appaiate che spaccavano la schiena per il peso. Come si può ben capire, dunque, si scendeva sempre negativi e per risalire … pinneggiare con forza!
Le risalite, come ogni buona scuola insegna, rigorosamente a 10 mt al minuto … “a occhio” perché non esistevano ancora nemmeno gli orologi subacquei: i secondi si contavano “in testa” e i metri si misuravano “a stima”. Non solo non si era ancora scoperto il vantaggio del deep safety stop ma non andava ancora “di moda” nemmeno la sosta di sicurezza a 5 metri. Seguendo scrupolosamente le tabelle, se fosse stato il caso, si rispettavano le soste a 9, 6 e 3 metri… ovviamente, rigorosamente sempre “a occhio”. Alle altezze previste venivano calate le bascule con l’immancabile “Topolino”, l’unico che, già all’epoca, usava una carta cerata che permetteva di essere sfogliata sott’acqua: almeno si faceva passare il tempo durante le interminabili soste.
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