Il giorno che abbiamo lasciato le cime a terra a Montauk, qualche ora prima di completare il carico e rizzarlo, stavo leggendo i Diari Antartici per ingannare l’attesa. A pagina 118 ho trovato una frase di Shackleton mi aveva particolarmente colpito.
Ho fatto un errore il giorno che sono partito dall’Italia, non ho preso la mia solita matita con cui sono aduso sottolineare e prendere appunti, sono abituato a scrivere con il lapis e non so perché ho preso invece una penna e dei fogli bianchi.
Finalmente siamo in marcia dopo quattro anni di preoccupazione, di lavoro.
Auguro a tutti noi il successo perché ho dedicato a questa impresa tutte le mie forze.
Oggi mi trovo in mezzo all’Oceano Atlantico, finalmente ancorato sopra l’Andrea Doria. È giunta l’ora di compiere delle scelte. Arrivare fin qui è stata l’impresa.
Ora bisogna raccontare la nave, ma anche il relitto.
La sicurezza è un aspetto a cui spesso ho pensato prima, ma soprattutto durante queste immersioni sull’Andrea Doria. I problemi ad essa connessi dipendono in larga parte dalla distanza della costa.
La corrente è sempre presente e forte, determinata a strapparti dalla barca per farti ritrovare a molte miglia di distanza, in mezzo a un oceano sconfinato e ruvido. La profondità è un problema relativo se non legato al tempo di fondo, ovvero al tempo di decompressione.
Ho pensato così tanto al fattore della sicurezza che la mia decisione iniziale è stata quella di non svolgere immersioni della durata superiore alle due ore. Centoventi minuti sono un buon compromesso tra le condizioni ambientali e il tempo di fondo.
Anzi, durante la seconda immersione che ho effettuato sul relitto, tanto era scarsa la visibilità che ho deciso di tagliare il tempo di fondo per evitare un’inutile lunga decompressione dato che non avrei ottenuto nessuna buona immagine ma solo scampoli di relitto.
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